NON SI VIVE DI SOLE MANOVRE E SENZA RIFORME SI MUORE. ECCO LA VERITA’ DA DIRE

Intervento del Ministro Renato Brunetta sul quotidiano “Il Foglio”:

“Non si può vivere di sole manovre. Ma, soprattutto, è bene di manovre non morire. In poco più di un anno, dal luglio 2010, abbiamo varato tre decreti di aggiustamento dei conti pubblici che, sul periodo 2011-2014, determineranno un effetto correttivo cumulato sui saldi di bilancio superiore ai 180 miliardi di euro. Erano necessari e urgenti. Ma forse non dobbiamo dimenticare il vecchio aforisma secondo il quale per affrontare ciò che è urgente, si rischia di non trovare tempo e determinazione per ciò che è importante.

Le cose urgenti sono le manovre correttive, le cose importanti sono le riforme. Naturalmente si può discutere questa definizione, che sembrerebbe sostenere che l’approvazione della manovra-bis appena varata, oltre che urgente non fosse necessaria. Non è così, dal momento che ci siamo trovati di fronte a un attacco speculativo che ha richiesto l’intervento della Banca centrale europea, intervento che è stato condizionato all’adozione di provvedimenti che accelerassero il sentiero già imboccato di azzeramento del deficit. Ma se questo è accaduto, non imprevedibilmente, è anche perché si sono trascurate le cose importanti, cioè le riforme, quelle che al tempo stesso servono a ridurre e qualificare strutturalmente la spesa pubblica e a sostenere la crescita.

L’attacco speculativo sui debiti sovrani è dovuto essenzialmente alla crisi dell’Europa, ma se l’Italia è stata considerata un possibile obiettivo lo dobbiamo a due fatti incontrovertibili: il livello del debito pubblico, il quarto del mondo; e il basso tasso di crescita. Non è il deficit corrente, in diminuzione e tra i più bassi tra i paesi avanzati, che era fuori controllo. Il debito pubblico è stato accumulato negli ultimi decenni dello scorso secolo, negli anni del consociativismo e della concertazione, ed è esploso quando si è pensato che ponendo vincoli esterni alle politiche di bilancio, come la rinuncia alla monetizzazione del deficit, con il cosiddetto “divorzio Tesoro-Banca d’Italia” (1981), senza previamente correggere le leggi di spesa, si sarebbe automaticamente ottenuta una correzione strutturale del bilancio assieme alla stabilizzazione del cambio e dell’inflazione. Non fu così, perché i riformisti, a partire dalla battaglia sulla scala mobile, si sono dovuti sempre faticosamente scontrare con un’opposizione politica e sindacale massimalista che faceva riferimento principalmente, ma non solo, al Pci e alla Cgil. Anche la riduzione del ritmo di crescita viene da lontano. Al netto di crisi e recessioni congiunturali, il tasso di crescita medio annuo decennale dell’Italia si è ridotto a partire dagli anni Settanta di un punto percentuale a decennio; fino ad arrivare, nell’ultimo periodo, vicino alla stagnazione. Il debito accumulato non ha certo aiutato, in quest’ultimo ciclo, a invertire la tendenza. Ma non è stato certo, nel complesso, un decennio di finanza allegra, tutt’altro. L’onere del debito ha impegnato le finanze pubbliche a comportamenti virtuosi sul lato del saldo primario. Ma di manovra in manovra, in cui si è dato il fondo ad ogni sorta di finanza più o meno creativa, ciò che era importante ha trovato ostacoli di ogni tipo all’esterno e all’interno delle maggioranze che si sono alternate al governo dell’Italia. La difesa della struttura neocorporativa dello stato e dell’economia è stata imponente nella società italiana, e ha trovato sponde e connivenze altrettanto forti tra le forze politiche e sindacali. La rivoluzione liberale auspicata da chi guardava alle trasformazioni epocali portate dalla tecnologia e dalla globalizzazione, si è scontrata con chi guardava a queste trasformazioni con paura, illudendosi di neutralizzarle rifugiandosi nel localismo o in fantasie neo colbertiste, e trovando alleati in una sinistra massimalista ormai fuori dalla storia. Se oggi stiamo ancora a discutere di pensioni di anzianità, e a inseguire la fiducia dei mercati con una successione affannata di manovre, lo dobbiamo anche a questo. Intendiamoci, delle riforme sono state fatte proprio sul sistema pensionistico, ma attraverso faticosi compromessi e non nel modo e nella misura richiesti con lungimiranza da molti riformisti, in entrambe le maggioranze. E d’altra parte, nel governo che ci ha preceduto, di segno politico opposto, sono state peggiorate anche le riforme già attuate (il cosiddetto “Scalone Maroni”), segno che la voce dei riformisti è più debole e inascoltata in quella casa. Il governo in carica ha varato molte riforme importanti, da quella dell’università a quella della Pubblica amministrazione, alle riforme fondamentali del mercato del lavoro e delle relazioni industriali. Molte di esse devono trovare piena applicazione e sono ostacolate da resistenze forti da parte di chi ritiene che c’è sempre qualcosa di più urgente. Ma nulla è più urgente dell’importanza di dare una risposta strutturale alla domanda di riduzione della spesa pubblica e di liberare risorse per la ricerca, per l’istruzione, per le infrastrutture, con al primo posto quelle informatiche. Nulla è più importante della riforma fiscale che non è diretta ad aumentare o diminuire il gettito, scelta che dipenderà dalle altre variabili che condizionano il bilancio, ma a spostare il peso del prelievo dai redditi e dalla produzione, ai consumi, cioè a sostenere la competitività e quindi la crescita. Riforma fiscale per la quale, peraltro, dovrebbero essere già disponibili gli studi tecnici, dal momento che se ne parla dal 1994. Questo governo ha approvato una riforma del bilancio e della contabilità pubblica, nel cui ambito devono essere attivate le procedure concrete di spending review che, assieme alla riforma dell’impiego pubblico, alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione, e a una applicazione virtuosa del federalismo, è la base per la riduzione efficiente del costo della Pubblica amministrazione, che è l’opposto della riduzione dell’efficienza dell’amministrazione. Ebbene su queste procedure di attuazione di una politica già decisa dal governo siamo in ritardo di quasi due anni. Perché? Di chi la responsabilità? Mentre le norme approvate sulla riforma del pubblico impiego, sulla semplificazione amministrativa, sulla digitalizzazione della Pubblica amministrazione incontrano sempre motivi contingenti per ritardarne l’applicazione. E non perché costano ma perché eversive degli attuali assetti corporativi e burocratici. Anche in questo caso perché? Di chi la responsabilità di tanto conservatorismo, di tanta opacità, di tanto potere fuori controllo spacciato per rigore? La riforma della giustizia, penale e civile, trova anch’essa resistenze importanti, politiche, corporative, istituzionali. Ma essa è altrettanto fondamentale per la crescita economica, come ricordato da molti economisti a partire dal governatore Mario Draghi. Come è fondamentale la liberalizzazione della gestione dei servizi di pubblica utilità, ostacolata dallo sciagurato referendum, sostenuto sempre dalla sinistra massimalista ma anche da forze legate ai poteri locali, che – come dimostrano le cronache di questi giorni – trovano in questi mercati protetti tentazioni importanti di corruzione o mala amministrazione, senza distinzione di colore politico. Questi sono i temi su cui oggi si dovranno confrontare i riformisti, di entrambi gli schieramenti, per battere i difensori di quello che possiamo ribattezzare tardo-corporativismo, che ha portato alla stagnazione e all’ampliarsi delle diseguaglianze. Nel 2013, gli elettori dovranno essere in grado di capire in quale dei due schieramenti prevalgono gli uni o gli altri, in base ai comportamenti concreti e alle scelte effettuate nei diciotto mesi che ci separano dalle elezioni politiche. Soprattutto questi sono i temi che ci sono imposti dal contesto internazionale in cui operiamo. Un contesto che è formato dai mercati, che non sono solo generatori di mostri, e dalle istituzioni sovranazionali, a partire da quelle europee in cui dobbiamo recuperare voce e peso in una fase in cui non viene dagli altri paesi una guida e lucidità maggiore a cui affidarsi. Sia i mercati, sia queste istituzioni non ci chiedono manovre, soprattutto se costituite da azioni temporanee, di cui si ignorano gli effetti strutturali (spesse volte perversi); ma riforme e crescita, o per essere più chiari, riforme per la crescita. L’urgenza delle manovre sul deficit è determinata dalla necessità di compensare l’incertezza e i contrasti politici nel perseguire queste riforme. Compensazione sempre più difficile perché ogni rallentamento della crescita, ogni dilazione delle riforme richiede una ulteriore manovra di aggiustamento. Il rallentamento perché rende più difficile l’azzeramento del deficit, la dilazione perché compromette la fiducia e quindi porta all’aumento del costo del debito. Un circuito appunto perverso che ci porta inevitabilmente al disastro.

Chi sostiene che il dibattito nella maggioranza sia tra il partito della spesa e chi si batte per il risanamento fiscale dice ancora un banale e interessato falso. Il contrasto è tra chi pensa che si possano passare decenni a turare le falle di una diga vecchia e permeabile e chi sostiene che è necessario rifare la diga e, soprattutto, investire nella sistemazione idrogeologica per regolare le acque che premono contro la diga stessa. Non è un dibattito ideologico, ma di metodo, e di competenze. Come non è questione di ideologia, il rimprovero indirizzato al governo dal presidente della Repubblica, di non aver detto tutta la verità sulla situazione economica. Con il massimo rispetto, ci permettiamo di dire che quando si fa appello alla verità si entra in un campo metodologicamente minato.

Ma più semplicemente ci chiediamo quale sia la verità che il governo avrebbe nascosto. I fatti dell’economia e dei bilanci sono descritti da una abbondanza di statistiche ufficiali non solo italiane, a disposizione di tutti, non solo del governo. Abbiamo scoperto, tra giugno e agosto, un buco nascosto o tendenze del bilancio pubblico diverse da quelle previste dal governo? Non ci sembra e nessuno ci ha accusato di questo. Non vi è un nuovo caso greco. Anzi la riduzione del deficit di bilancio procedeva già più velocemente del programmato. Si è previsto non correttamente il tasso di crescita? Forse, ma le correzioni sono continue da parte anche delle istituzioni internazionali. Si doveva prevedere la crisi di fiducia sui titoli italiani? Forse era prevedibile, ma non era una verità, anche perché dipendeva per parte importante dalle decisioni europee. E, in ogni caso, già una volta quando il presidente del Consiglio Giuliano Amato, nel 1992, annunciò che l’Italia era sull’orlo del baratro, si accelerò la più grave crisi della nostra moneta del Dopoguerra, e un’emorragia di riserve ufficiali. Seguì una forte manovra di aggiustamento del bilancio che, tuttavia, sarebbe dovuta venire prima e non dopo l’affermazione.

La verità che andava detta è probabilmente quella del lungo scontro tra riformisti e tardo-corporativisti (delle due sponde). Tant’è che il richiamo autorevole, con correttezza bipartisan, ai comportamenti ostruzionistici dell’opposizione riecheggia questa verità. Ma allora anche questa verità è stata nascosta fino a oggi”.

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