I silenzi sul Nobel che promuove l’Italia


Raccontata da dentro e letta sui nostri giornali, l’Italia appare un disastro, un eterno pericolo. Vista da fuori, da occhi esperti e competenti, sembra assai più solida. Solo questo secondo punto di vista spiega la realtà. Liberi dal provincialismo e da posizioni ideologizzate e preconcette, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman e il capo economista di Unicredit Erik Nielsen hanno analizzato lo stato di salute dell’economia italiana e del Regno Unito, facendo riferimento ai debiti aggregati (sovrano più privato), al livello delle rispettive posizioni nette sull’estero e alle politiche di bilancio. Sorpresa, il giudizio è a favore del nostro Paese. In riferimento a questi parametri, l’Italia sta infatti meglio della Gran Bretagna. Se gli italiani non lo sanno, il merito è tutto dell’assordante silenzio dei commentatori e osservatori nazionali.

Sul Financial Times dello scorso 11 ottobre, Erik Nielsen solleva alcuni interessanti interrogativi. Il declassamento dell’Italia, a opera delle agenzie di rating, trova giustificazione nei fondamentali economici proprio quando l’Italia ha fatto manovre di consolidamento fiscale più severe di quelle programmate dagli altri principali Paesi? I mercati operano scelte razionali e giuste dal punto di vista economico quando comprano titoli inglesi con un rendimento dell’1,6%? No, secondo quanto afferma Nielsen. A suo giudizio Gran Bretagna e Italia sono Paesi comparabili in termini di reddito, ricchezza e dimensione; differiscono invece per l’entità del debito pubblico, più alto di circa 40 punti percentuali (in rapporto al Pil) quello del nostro Paese. Tuttavia, il debito privato degli inglesi è significativamente più elevato, così che la posizione debitoria italiana è complessivamente più solida: nel 2009 il debito nazionale lordo (somma del debito pubblico e del debito delle famiglie, delle imprese finanziarie e non) dell’Italia era infatti pari al 337% del PIL e al 531% per la Gran Bretagna.

Le valutazioni dei mercati e delle agenzie di rating possono allora trovare una qualche giustificazione nelle azioni di policy compiute dai rispettivi governi nel corso della crisi? Anche questa volta la risposta data da Nielsen è negativa. Da un lato l’Italia ha agito per riequilibrare rapidamente e in misura consistente i suoi conti, programmando il pareggio di bilancio già per il 2013 e avviando il suo debito pubblico su un percorso di progressiva riduzione. Dall’altro la Gran Bretagna resta ancora indietro nel perseguire il consolidamento fiscale – quest’anno registrerà ancora un disavanzo primario (la differenza negativa tra entrate e uscite al netto degli interessi passivi) e giungerà a un avanzo (la differenza positiva tra entrate e uscite al netto degli interessi passivi) significativo non prima del 2015 – ma, allo stesso tempo, ricorre al gioco del deprezzamento beneficiando dell’accondiscendenza della sua Banca Centrale che non pone limiti all’emissione di sterline. Krugman mette in evidenza l’incidenza dei comportamenti tenuti dalle banche centrali (BCE e Bank of England) nel determinare la posizione relativa tra i due Paesi.

Fin qui l’analisi delle incongruenze e dei paradossi su quanto è successo in Gran Bretagna e in Italia nel corso della crisi. Per quanto riguarda gli scenari e le prospettive, sono due sono i punti essenziali, entrambi ben noti, che vengono messi in luce nei loro articoli.

Primo: un Paese che appartiene a un’unione monetaria non può unilateralmente deprezzare la propria valuta per rendere competitiva la sua produzione interna. L’unica via possibile per essere competitivi è quella di tenere sotto controllo il costo unitario del lavoro. E qui sta il nostro problema. Mentre la crescita dei salari nominali si è grosso modo mantenuta allineata a quella degli altri Stati membri dell’unione monetaria, in Italia la produttività del lavoro è infatti cresciuta a un ritmo significativamente inferiore. Questo determina la crescita continua del costo unitario del lavoro che ostacola la nostra capacità competitiva e quindi penalizza le nostre esportazioni.

Secondo: seguendo l’approccio di Krugman, i problemi strutturali dell’Italia potrebbero essere alleviati se la Bce si decidesse per una più decisa azione di monetizzazione del debito, “preoccupandosi il dovuto dell’inflazione”. Per Krugman questo significa che in una prolungata situazione di (quasi) trappola della liquidità (situazione di inefficacia della politica monetaria, che non riesce a influenzare consumi e investimenti) la dimensione della base monetaria non conta.

Dopo innumerevoli attacchi all’azione di governo e critiche masochistiche sulla solidità del Paese – provenienti da più o meno autorevoli analisti economici accademici e non, dai principali quotidiani nazionali, da associazioni di categoria e dalle opposizioni – viene così da chiedersi se non sia arrivato il momento di smetterla con i soliti luoghi comuni, analizzando finalmente la situazione con obiettiva serietà.
In altri termini, occorre riflettere su come migliorare la produttività delle imprese e diminuire il costo del lavoro. Temi su cui il Governo ha fatto e deve fare ancora la sua parte, ma che investono innanzi tutto il ruolo delle imprese e la loro capacità di investire. Morale? Il provincialismo autolesionista tipico di certi ambienti italiani danneggia l’economia e l’immagine del Paese tanto al suo interno quanto all’estero, traducendosi in inspiegabili spread e anomali andamenti di Borsa. In fondo Nielsen e Krugman non propongono una loro visione del mondo ma analisi solide e teoricamente fondate, fuori dalla propaganda e dalle ideologie. Non sarebbe il caso di fare altrettanto anche in casa nostra, a vantaggio di tutti?

Renato Brunetta
da Il Giornale

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